Juliette Binoche: «I giudizi? Oggi me ne frego. In ogni caso, morirò presto»

Sessant’anni appena compiuti e quarantuno di carriera, ha sempre scelto i film – più di 80, a oggi – seguendo l’istinto, i desideri, la curiosità
Juliette Binoche

Questo articolo su Juliette Binoche è pubblicata sul numero 12 di Vanity Fair in edicola fino al 19 marzo 2024.

All’improvviso mima Laura Dern quando in Jurassic Park si lancia in una folle corsa nella giungla inseguita dai velociraptor. All’epoca, Steven Spielberg le aveva proposto di interpretare la dottoressa Ellie Sattler, ma lei era impegnata in Film blu della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieslowski, così disse «no» a uno dei più grandi registi del mondo. «Se n’è pentita?», le chiediamo. «Per niente. Sono una persona leale», risponde Juliette Binoche.

Tuta, cintura e stivali, Prada.

Sessant’anni appena compiuti e quarantuno di carriera, ha sempre scelto i film – più di 80, a oggi – seguendo l’istinto, i desideri, la curiosità. Sensuale e carismatica, ha lavorato con i registi più importanti, dal debutto in Liberty Belle di Pascal Kané del 1983 a Je vous salue, Marie, ovvero l’annunciazione secondo Jean-Luc Godard del 1985, a Claire Denis, che l’ha diretta
nell’Amore secondo Isabelle del 2017, e in Incroci sentimentali del 2022. Deliziosa Sabina nell’Insostenibile leggerezza dell’essere di Philip Kaufman del 1988, struggente nei panni della scultrice internata in Camille Claudel 1915 di Bruno Dumont. Per non parlare de Il danno, capolavoro di Louis Malle del 1992 in cui Binoche è Anna Barton, una donna intensa e affascinante segnata dalla tragedia. Binoche è tra le pochissime attrici francesi ad aver vinto un Oscar – quello di migliore attrice non protagonista per Il paziente inglese di Anthony Minghella del 1997 – e condivide con Julianne Moore la consacrazione ai tre più grandi festival cinematografici: Cannes, Berlinale e la Mostra del Cinema di Venezia.

Ci accoglie nel suo nido parigino. Apre la porta e chiede a bassa voce: «Caffè? Tè? Qualcosa da mangiare?». Senza trucco, senza cerimonie, senza un ingombrante entourage. Nel soggiorno, due gatti si contendono un posto sul divano. Binoche beve una tisana di anice stellato seguita da pastiglie per la gola: «Ho bisogno della mia voce in questi giorni», spiega. Sta registrando il doppiaggio francese di The New Look, la serie in onda su Apple Tv+, dove interpreta Coco Chanel. Recita in inglese accanto all’australiano Ben Mendelsohn nei panni di Christian Dior. Un ritratto di due geni della moda nella Parigi dell’Occupazione: «Ho letto molti libri per prepararmi. Ci sono opere astiose e altre più edulcorate. Volevo aprirmi un varco verso la verità, leggere chi l’aveva conosciuta davvero».

Juliette Binoche nei panni di Coco Chanel in The New Look.

Con Ben Mendelsohn, 54 anni, che nella serie interpreta Christian Dior.

Roger DO MINH

Secondo il creatore Todd A. Kessler, la scelta di Binoche per interpretare la signora delle camelie era ovvia. Ma le prime versioni della sceneggiatura non avevano convinto l’attrice. Trovava il personaggio «impossibile da amare», schiacciato dal giudizio morale. Poi, un giorno, ne ha parlato con Virginie Viard, direttrice artistica di Chanel e sua amica di lunga data, e ha cambiato prospettiva: «Ho capito fino a che punto Coco Chanel fosse una donna complessa. Poiché proveniva da un ambiente povero, il suo desiderio di creare era forte quanto il suo bisogno di sopravvivere».

Un viso è come un libro aperto

Sono stati i suoi genitori a trasmetterle l’amore per la recitazione. Accenna un sorriso triste quando parla del padre, morto nel 2019. Era un uomo che amava immensamente la libertà. Mimo, scultore e regista, ha vissuto in Marocco, dedicando la sua vita al palcoscenico. Da bambina, a volte lo seguiva in tournée insieme alla sorella maggiore nel Sud della Francia. Un Natale portò le figlie anche a casa di Charlie Chaplin, di cui conosceva la figlia Victoria. Juliette era una fan dei cortometraggi di Chaplin, gli unici capaci di suscitare gioia e tristezza contemporaneamente. Ma a 9 anni non aveva ancora collegato questo sconosciuto cineasta americano al vagabondo di Tempi moderni. Fino al momento in cui non lo aveva visto con la moglie davanti al cancello di casa loro. Era stato uno shock. Si ricorda di aver abbassato il finestrino dell’auto e di aver gridato, indicandolo: «Charlot! Charlot!».

Un’altra immagine popola i suoi ricordi, quella del volto emaciato dell’attrice Renée Falconetti nella Passione di Giovanna d’Arco. «In quel momento mi resi conto che un viso può essere un libro aperto». Nella sua formazione c’è anche la cinefilia incoraggiata dalla madre, insegnante e attrice a intermittenza. Quando aveva 14 anni, sua mamma le diede una copia dell’iconica rivista L’Officiel des spectacles con tanto di suggerimenti per accompagnarla durante i suoi primi anni parigini. Juliette vedeva due o tre film al giorno e scoprì Peter Brook al Bouffes du Nord. Tutto si collega: le lezioni con l’insegnante di recitazione Véra Gregh, l’incontro decisivo con l’agente Dominique Besnehard che più tardi, nel 2002, dirà di lei: «È magica e indefinibile».

Completo over, Fendi.

All’epoca, i giovani attori si accalcavano al cancello per partecipare al casting di Fuorilegge di Robin Davis (1985). Binoche non ottenne la parte, ma i suoi provini finirono nelle mani di André Téchiné, che stava cercando un volto fresco per il suo Rendez-vous (1985), dove interpreterà un’attrice appena arrivata nella capitale che intreccia relazioni sadomaso con vari uomini. Il film
viene selezionato a Cannes ed eccola sulla Croisette sotto una pioggia battente. Cade nell’atrio del Carlton, poi scoppia a ridere. Nelle foto dell’epoca la vediamo saltellare con gioia sulla spiaggia, pronta ad abbracciare ogni opportunità: era nata una stella.

Quando Binoche parla della sua professione, va sempre in profondità. Paragona le riprese a «una preghiera» e a «una comunione», crede che gli artisti siano «chirurghi del cuore». Recitare, spiega, equivale a stare sull’orlo di un abisso: «Non sappiamo se sopravviveremo. Spingersi al limite è necessario». E lei spesso flirta con i suoi limiti, volteggiando come un’acrobata su un trapezio. Le piace preparare i suoi ruoli «all’americana», confrontandosi con la realtà. Per interpretare una pittrice senzatetto negli Amanti del Pont Neuf (1991), ha vissuto diversi mesi per strada, dormendo in un ostello a Nanterre, facendo la spola con la capitale. Un episodio la segnò profondamente: una mattina, sulla via del ritorno, un compagno di sventure sulla quarantina le consegnò una banconota da 500 franchi dicendole: «Se vuoi possiamo dividerceli».

Nei due anni delle riprese, ha cercato finanziamenti con il suo compagno di allora, Leos Carax, andando persino a girare uno spot pubblicitario in Giappone. Il risultato è lì, stupefacente: come dimenticare l’incredibile sequenza dei fuochi d’artificio sul ponte? O lo sci nautico sulla Senna? «Il cinema è un luogo cruciale. Ci sono film che cambiano la vita, anche se tendiamo a sminuirne il potere trattandoli come intrattenimento». Sul set una volta ha dovuto calarsi in acqua con 14 chili di peso intorno alla vita, rischiando di affogare. «Mentre lottavo per tornare a galla ho giurato a me stessa che dovevo scegliere la vita», avrebbe raccontato in seguito. In realtà, ha sempre subito il fascino degli abissi: «Essere stanchi permette di aprire un’altra breccia, di raggiungere nell’esaurimento una forma di auto-conoscenza».

All’inizio degli anni ’90, sogna di recitare nella Trilogia dei colori di Kieslowski in Film blu: la storia di una donna che perde marito e figlia in un incidente d’auto. Al regista polacco, che la ritiene troppo giovane per incarnare il volto del lutto, invia la stessa frase che Luchino Visconti aveva scritto a Charlotte Rampling: «Ciò che m’interessa è quello che c’è nei tuoi occhi...». Le riprese saranno a volte caotiche, con il regista che non sempre gradisce la dedizione totale della sua interprete. In un passaggio, Binoche doveva strofinare una mano posticcia contro un muro di pietra fino a farla sanguinare. L’accessorio cadeva di continuo, così lei suggerì di liberarsene e di usare la sua di mano, per una maggiore autenticità. Kieslowski reagì: «Non ci pensare nemmeno. Questo è un film, non la realtà!». La parte le varrà un César.

Il coraggio di una donna

Binoche ama vivere intensamente. «Quello che mi stanca è stare a casa. La quotidianità mi divora», dice. Affrontiamo anche il tema della sua nota golosità, e lei tira fuori un raccoglitore zeppo di ricette infilate alla rinfusa che sfoglia freneticamente. Appunti scritti a mano, lo spezzatino di agnello di un’amica, il segreto delle frittelle della nonna... «Perché vivere senza entusiasmo? Io ce ne metto anche quando cucino o quando vado a fare la spesa», sottolinea.

Se c’è una cosa che la manda in bestia sono invece gli attori poco generosi. «Non hanno capito che l’energia che metti ti ritorna. È quasi matematico». E cosa dire di quel regista che, prima di ogni ripresa, interrompeva la sua concentrazione chiedendole: «Any question?». Per molto tempo non ha osato rispondere «no», per paura «di irritare, di non essere più amata».

È vero che il mondo del cinema non ha mai apprezzato le donne ribelli, spesso attribuendo loro la fama di «donne difficili». Pensiamo alla sua disavventura con Claude Berri alla fine degli anni ’90. Durante una cena, il regista di Ciao amico le chiese di interpretare la protagonista nel film Lucie Aubrac - Il coraggio di una donna. Ma lei era impegnata con Minghella per Il paziente inglese. Berri insistette: «Questo tizio, non lo conosce nessuno», disse riferendosi al regista. Lei tenne duro. Otto mesi dopo iniziarono le riprese. Altro momento di tensione. Binoche verificò con la vera Lucie Aubrac, la partigiana scomparsa nel 2007, l’autenticità delle scene previste dal film, mentre Berri voleva stemperare la storia per renderla più romantica. Dopo due settimane, il regista raggiunse il limite e la licenziò. Binoche, per sua fortuna, aveva appena vinto l’Oscar per Il paziente inglese ed era intoccabile. Poteva anche permettersi di confrontarsi con Martin Scorsese e Steven Spielberg sulla loro scarsa inclinazione a creare personaggi femminili forti. Forniva feedback sulle sceneggiature, fedele a quella «integrità che mette soggezione» di cui parlerà Kristen Stewart, sua partner in Sils Maria di Olivier Assayas (2014): «Ha questa capacità snervante di rivelare cose di te che nemmeno sospettavi».

Per Binoche sul set bisogna collaborare: «L’armonia è più importante dell’ego e delle gerarchie. I migliori attori sono quelli che sanno ascoltare gli altri». Assayas lo dice a suo modo: «Binoche è più di un’attrice. Si appropria dei ruoli, si abbandona a essi completamente». E lei: «Bisogna dare forma alla nostra vita, non aspettare che sia la vita a modellarci».

Sulla sua, di vita, circolano mille leggende: Bill Clinton avrebbe davvero tentato di sedurla? No. Dice che è andata alla Casa Bianca quando interpretava Antigone nel dramma di Anne Carson a teatro a Washington. È vero che l’ex presidente François Mitterrand la corteggiava? Si offrì di accompagnarla in Cecoslovacchia con un aereo privato, ma lei declinò l’invito. «E poi c’è quel libro dove… Non so perché glielo sto raccontando!». Il libro in questione, Dans l’ombre des Présidents : Au cœur du pouvoir - les secrétaires généraux de l’Élysée (2016), afferma che l’ex capo dello Stato considerava l’attrice «la donna ideale». Ma lei taglia corto: «È la mia vita privata, riguarda solo me!».

Giacca e tubino, Sportmax. Guanti, Maison Fabre. Stivali, Giuseppe Zanotti.\

Sappiamo che ha due figli, anche loro appassionati di cinema: Raphaël, 30 anni, avuto con il tuffatore André Hallé; Hana, 24, nata dalla relazione con Benoît Magimel. I due si erano incontrati la prima volta nel 1999 sul set de I figli del secolo, storia della passione tra George Sand e Alfred de Musset, e vent’anni dopo si sono ritrovati nella Passion de Dodin Bouffant di Tran Anh Hung. La finzione si mescola alla realtà: incarnano una coppia in una campagna francese del XX secolo. Lui è un borghese appassionato di gastronomia. Lei la sua devota cuoca e amante. Incapaci di esprimere a parole i propri sentimenti, lo fanno attraverso i piatti. Nella sequenza chiave del film, Dodin Bouffant prepara da mangiare alla sua assistente malata. Tutto il suo amore si rivela in gesti meticolosi e attenti. Per entrambi, le riprese hanno sciolto le tensioni: «L’idea di ritrovarlo mi rendeva nervosa ma questo film ha permesso di esprimere il non-detto che si era accumulato nel tempo». Durante la proiezione ufficiale all’ultimo Festival di Cannes, dove il film ha vinto il premio per la regia, Magimel è scoppiato in lacrime quando Binoche muore sullo schermo. «Non era un semplice pianto, ma veri e propri singhiozzi. Ero imbarazzata, ma allo stesso tempo morivo dal ridere». Da allora, non perde occasione per prenderlo in giro, dice.

Binoche considera eccessiva la polemica sulla preselezione del film, preferito ad Anatomia di una caduta, per rappresentare la Francia agli Oscar. «Saremmo stati felici di avere due film francesi in lizza. Ma quello di Justine Triet si è comunque preso i suoi riconoscimenti». La stagione dei premi assomiglia a un grande circo: «La posta in gioco è enorme. È una giungla. Ma io mi sono messa il vestito giusto per affrontarla», scherza. Al che, proviamo a chiederle se i rapporti con i media anglofoni siano più semplici. Ancora una volta, la risposta ci sorprende: «Oggi me ne frego. In ogni caso, morirò presto». Ha torto: ai nostri occhi, Juliette Binoche è eterna.

Cappotto e camicia, Dior. Orecchini pendenti, orologio e anelli, Cartier. Cappello, vintage.

Foto Maxime Frogé
Servizio Jonathan Huguet
Ha collaborato Rebecca Perrier
Make-up Céline Planchenault
Hair Perrine Rougemont
Manicure Marie Rosa
Set Designer Clément Pelisson
Digital Juliette Breig-Kral
Produzione e post Art Board

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